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Per Aspera Ad Veritatem n.18
Memoria del sapere e potere: Giordania e Salafiyyah

Valeria PIACENTINI



"Yesterday is History
Tomorrow is Mystery
Life is Today"
(J. Ergas)




Il discorso che segue si ricollega a concetti di sicurezza correlati alla particolare struttura sistemica e politica del Regno Hashemita, e va inquadrato nel contesto globale del post-bipolarismo.

1. La Giordania - dal territorio prevalentemente montuoso e desertico - nacque come regno "militare" nel 1949 dopo l'annessione della Cisgiordania, e tale restò anche quando l'appoggio britannico fu sostituito da quello statunitense. Il prestigio militare, eroico, della più pura tradizione beduina e di figli del deserto, di cui seppe circondarsi la Corona, rappresenta ancora oggi il legame che ha tenuto insieme per oltre mezzo secolo questa "anomalia" palestinese. Il forte carisma personale dei sovrani che si sono avvicendati sul trono Hashemita, e la potente minoranza arabo-cristiana palestinese, su cui questi monarchi continuano a fare largo affidamento per delicati equilibri interni e internazionali, costituiscono i due pilastri principali del sistema istituzionale giordano. Quanto alla popolazione palestinese musulmana, ossia la maggioranza della popolazione giordana, anziché cristallizzarsi in un immobilismo di stampo tribale, ha guardato avanti, in una proiezione futura. In base al modello statuale appena descritto, era implicito che a loro difficilmente sarebbe stato concesso l'accesso a cariche pubbliche di particolare prestigio, oppure ai quadri alti dell'esercito e dell'amministrazione (nelle mani o sotto rigoroso controllo della Corona). Tuttavia, particolarmente industri e attivi, essi non mancarono di formarsi un'educazione (sia pure all'estero); nel giro di una generazione, o poco più, sono divenuti i quadri tecnici e "professionali" dello stato; non solo, ma imitando con perizia quanto realizzato dagli Ebrei nei territori confinanti, sono riusciti a far rinverdire le aride pendici delle montagne giordane - rese scabre e desertiche dal feroce disboscamento cui furono sottoposte all'epoca delle Crociate - creando una vera e propria agricoltura (sia pure su una porzione esigua del territorio). Solo una minoranza continua a vivere come massa disoccupata nelle nuove e moderne città giordane o nei villaggi, oppure ancorata a tradizioni di pastorizia ancora allo stato "nomadico". Nel complesso, queste genti palestinesi autoctone - cui si sono aggiunte masse di profughi a seguito dei conflitti arabo-israeliani del 1948 e del 1967, e della guerra del Golfo del 1990-91 - hanno rappresentato una popolazione fortemente insoddisfatta, repressa nelle legittime aspirazioni a posizioni di comando, perlopiù esclusa dalle leve del potere, e sempre più impregnata di un nazionalismo diretto non soltanto contro Israele (usurpatore di territori nazionali), bensì anche contro la stessa monarchia (straniera, anche se di nobilissime e purissime origini, proveniente dalle petraie del Hijaz nella Penisola Arabica, e usurpatrice a sua volta dei naturali diritti del popolo palestinese).
Fu così che, sin dal nascere di questa entità statuale post-bellica, i Palestinesi musulmani furono facile preda delle ideologie più estremiste e militanti, prima fra tutte quella esportata dall'Egitto nelle strutture della Associazione dei Fratelli Musulmani. Nel 1951, re ‘Abdallah pagò con la vita la colpa di avere pensato a una pace con Israele e all'estensione del suo stato alla Cisgiordania (componente sociale e politica contrastante con quella beduina del suo stato originario); sono ormai storia ben documentata le trattative segrete intercorse fra Moshe Dayan e il sovrano Hashemita. Il suo assassinio fu la prima espressione palese dei malcontenti dei Palestinesi e di quei profughi - sempre più numerosi - che si rifugiavano in Giordania provenienti dai territori inglobati nello stato di Israele. Ed è anche storia che, con la morte di ‘Abdallah, si dissipò anche il grande progetto di una "Grande Siria", che avrebbe dovuto realizzare l'unione fra Iraq, Siria e Giordania.
Il 1° gennaio 1952 veniva promulgata una Costituzione che faceva del regno Hashemita una monarchia costituzionale "alla Westminster", in cui il Governo doveva avere la fiducia del Parlamento, composto da una Camera dei Deputati (a suffragio popolare) e da un Senato (di nomina regia). Le prime elezioni ebbero luogo nel 1989.
Gli anni che seguirono l'assassinio di ‘Abdallah rappresentarono, per il regno Hashemita, un momento di crisi, che ne mise in discussione con la stabilità la vera e propria esistenza. La nascita dello stato di Israele indubbiamente costituì - e costituisce tuttora - una spina nel cuore della "nazione araba". Lo sviluppo economico e sociale, la tenacia degli abitanti di questo piccolo stato ebreo - sempre appoggiati finanziariamente dal Sionismo internazionale - divennero ben presto il manifesto di gravissime contraddizioni regionali: da un lato, l'indubbia possibilità di sviluppo e modernizzazione anche tecnologica nel pieno rispetto della tradizione e delle radici culturali (the own self); e dall'altro, l'arretratezza degli Arabi e le loro frustrazioni. Una contraddizione che si venne rispecchiando nella divaricazione della "memoria del sapere", ovverosia l'organizzazione del sapere e della società intorno a questo sapere, in base a categorie concettuali e modelli istituzionali nuovi, da una parte; e radicamento nella tradizione orale e nelle consuetudini di un passato sempre più remoto, dall'altra. Gli insuccessi militari - prima negativa "prova del fuoco" della neo-indipendenza giordana - accentuarono ulteriormente le contraddizioni interne, provocando una serie di crisi, che, come si è detto, furono ben presto esasperate non soltanto dalle endemiche rivalità interne fra gruppi etnici, religiosi e tribali, fra loro profondamente diversi per origini e coscienza di gruppo, ma anche dai generosi interventi di una o altra Potenza straniera.

2. A questo punto - in Giordania - anziché avviarsi un processo di dissoluzione interna ebbe inizio un processo consapevole di organizzazione del sapere, e di organizzazione della società intorno a questo sapere moderno. Ebbe inizio - in altre parole - la transizione e la svolta decisiva verso le dimensioni nuove del sapere, dimensioni tecniche - o, se preferibile - tecnologiche in senso lato. Al tempo stesso, ebbe inizio un processo apparentemente inverso, quello della conservazione del sapere tradizionale, della sua registrazione, e, con questa, della ricerca e riscoperta di quelle istituzioni e di quei "codici" che ne hanno costituito gli strumenti indispensabili. E così, quel patrimonio culturale relativamente "chiuso" ed etero-referenziale (immodificabile nel momento in cui divenne strumento di potere) lasciò gradualmente il posto a un nuovo corpo organizzato che cominciò a svilupparsi e ad aggregare il sapere ex-novo. Su tutto prevalse il carisma personale della Monarchia (il nuovo sovrano anzitutto, ossia re Husein bin Talal, asceso al trono giovanissimo) e la sua straordinaria capacità di comprendere gli stati d'animo individuali e percepire le innovazioni conciliando queste ultime con la tradizione; non vi è dubbio che re Husein seppe avviare il Paese verso un processo di modernizzazione che - oggi - fa di questo regno un apparente modello di equilibri interni e internazionali.
La transizione vera e propria, e la svolta decisiva verso queste dimensioni nuove del sapere, incarnato nella coscienza islamica, provocò inevitabilmente uno iato, una divaricazione tra sviluppo tecnologico e conservazione delle antiche tradizioni. Tra l'uno e l'altro livello permase tuttavia sempre una relazione costante. Il sorgere e il diffondersi fra la popolazione palestinese di tecnologie e di nuovi strumenti di produzione portò contemporaneamente alla affermazione di nuove sedi istituzionali all'interno della stessa Giordania, e al cambiamento - spesso molto profondo - delle tecniche stesse di apprendimento e di diffusione del nuovo sapere. Tra sviluppo tecnologico e conservazione della memoria delle antiche tradizioni non venne mai meno il rapporto reciproco; e questo rapporto divenne sempre più stretto via via che i balzi in avanti del sapere tecnologico portarono a trasformazioni sempre più impressionanti della vita e della società.
Una siffatta evoluzione ha implicato necessariamente una evoluzione delle strutture stesse del potere. Nella crescente divaricazione fra accesso al sapere e non accesso al sapere tecnologico, si collocò a un certo punto la "divulgazione", i Media, la grande realtà e rivoluzione dell'ultimo decennio del secolo ventesimo. Questa si venne trasformando in una funzione estrinseca, un compito aggiuntivo nei confronti del lavoro scientifico, ma - al tempo stesso - essa divenne sempre più uno strumento indispensabile per l'esercizio e la conservazione del potere. Di questo delicato processo, la Corona Hashemita ha avuto sempre consapevole percezione; e ha sempre evitato con cura - e grazie al proprio ascendente personale che le guadagnò in più di una crisi il consenso della popolazione (anche dei Palestinesi nella loro maggioranza) - una divaricazione fra accesso al sapere (inteso come retaggio esclusivo dei pochi che detengono ed esercitano di fatto e di diritto il potere) e non accesso al sapere (ovverosia la massa della popolazione). Si è trattato di una linea politica ben precisa, portata avanti dalla Famiglia regnante in una equilibrata complementarità di ruoli, che ha mirato altresì ad evitare gli altrimenti inevitabili iati e sperequazioni economici e sociali. Si tratta di una linea politica, che ha guadagnato alla Giordania il tasso di crescita economica fra i più alti della regione (+6,9% nel 1997), ed il "premio" di consistenti finanziamenti da parte del FMI e della Banca Mondiale (programmi di sviluppo 1992-1998), nonché notevole afflusso di investimenti stranieri (grazie anche all'istituzione di quattro zone franche).


3. Il discorso che precede - anche se presenta un approccio vicino alla "filosofia della politica" - si è reso necessario in quanto consente di capire dall'interno le "opposizioni" al regime e, soprattutto con la fine del bipolarismo e l'evoluzione della situazione politica anche mediorientale, le ideologie di base che si sono venute coagulando all'interno di una opposizione, che era stata (e lo è tuttora) recuperata in larga misura al potere, una opposizione che ormai fa parte del potere stesso, o vi partecipa all'interno e attraverso strutture ben precise, godendo di status e benefits. Mi riferisco nello specifico alla Associazione dei Fratelli Musulmani - o Fratellanza Islamica - su cui si tornerà fra breve.
Nel periodo compreso tra gli anni Cinquanta-Settanta del secolo ventesimo, si assiste in tutta la regione mediorientale al rovesciamento delle vecchie classi dirigenti legate alle Potenze Occidentali dell'ancien régime, e alla lotta da parte delle nuove leaderships per il consolidamento del potere appena conquistato e per la sua gestione e conservazione.
È un periodo, una fase storica, che vede il confronto bipolare al suo apice. Gli obiettivi economico-sociali che avevano portato al potere militari e nuove dirigenze in un po' tutta l'ecumene islamica, avevano guadagnato loro il consenso popolare di diverse fasce sociali fino ad allora escluse, ossia le professioni, i tecnici, il rurale, talune istituzioni religiose più propriamente legate alla sharì‘ah, e perfino quel sottobosco umano rappresentato da un nascente sottoproletariato urbano ai limiti della sopravvivenza. Quegli stessi obiettivi - una volta conquistato il potere - divennero altrettante linee di azione sulla base di programmi politici e pianificazione poliennale. L'Occidente - Est-europeo e Ovest - continuò ad assicurare appoggi e finanziamenti, e, con questi, garantì nella regione un "proprio" ordine, e, con questo, garantì a se stesso l'accesso alle risorse energetiche della regione.
L'opposizione a questi regimi fu un'opposizione perlopiù interna. Essa si coagulò quasi subito, e si organizzò intorno a linee etiche e ideologico-dogmatiche ben precise: takfìr, jihàd, hijrah, jahiliyyah. In altri termini, ritornando alle origini dell'Islam l'opposizione accusò gli establishments di "ignoranza" dei principi reali della Legge sacra dell'Islam, etichettandoli come "apostati" ed "eretici", e proclamò militanza ad oltranza contro quei regimi i quali, pur proclamandosi islamici, avevano tradito l'Islam e quegli impegni di patto sociale e giustizia sociale in esso contenuti, asservendo viceversa il proprio potere agli interessi dell'Occidente e non a quelli della Comunità dei "veri" Credenti (1) . Il lessico politico dell'epoca fa largo uso di definizioni quali "giustizia sociale ed economica"; in realtà, tuttavia, non elabora precisi programmi in materia, limitando la propria azione alla penetrazione capillare fra le diverse fasce della popolazione su cui tematiche simili potevano avere larga presa anche emotiva. Destabilizzazione e rovesciamento dei regimi "takfir" diviene l'obiettivo di lotta.
Un secondo periodo - compreso fra gli anni Settanta-Novanta del secolo ventesimo - vede il fallimento di quelle classi dirigenti andate al potere con le rivoluzioni degli anni precedenti.
Il fallimento non si rivela soltanto nel settore politico (incapacità di creare e governare uno stato su basi genuinamente islamiche, e pertanto rinnovata accusa di "takfir" da parte dell'opposizione militante), ma anche nel sociale ed economico (fallimento di quelle riforme sociali ed economiche contenute nei programmi che le avevano portate al potere).
In questo periodo, le diverse dirigenze - pur continuando a proclamarsi islamiche - devono far fronte a una opposizione interna ben organizzata e ormai "internazionalizzatasi". Cambiano le strategie e le tattiche dell'opposizione. Questa fa appello a tematiche dogmatico-filosofiche per denunciare la classe dirigente e i suoi fallimenti in materia di esecutivo islamico; procede alla (ri)organizzazione di Gruppi speciali, il cui obiettivo ultimo è quello di colpire i regimi proclamati "takfir" prescindendo da una mobilitazione generale della popolazione, di minarne la credibilità sia all'interno sia di fronte alla comunità mondiale, e, con precise azioni terroristiche, destabilizzarne il potere politico ed economico fino al loro rovesciamento attraverso operazioni accuratamente preparate e mirate. Cominciano a staccarsi dalla "casa-madre" della Associazione dei Fratelli Musulmani correnti più intransigenti ancora, gruppi che si auto-definiscono "di Jihad" (fra i quali, si è visto in altra sede, emergono le organizzazioni di "Al-Jihad" risalenti agli anni 1975 circa, la "Jama‘at al-Muslimin" nota anche con il nome di "Al-Takfir wa al-Hijrah", la "Tanzim al-Jihad", la "Jama‘ah al-Islamiyyah" da tenere ben distinta dalla Jami‘at-i-Islami di Mawdudi, e, intorno agli anni ‘93, la "Tala'i al-Fattah", il MIA e il GIA algerini, ecc.), i quali non ammettono compromessi, e gruppi militanti che si possono etichettare da un punto di vista ideologico-dogmatico come neo-kharigiti, neo-mutaziliti, e salafiti (2) .
Le varie dirigenze al potere devono sostanzialmente alle tensioni del bipolarismo la loro sopravvivenza, in un ordine regionale che - sostanzialmente - è ancora un ordine Occidentale, puntualizzato da crisi petrolifere dei Ps e dal crescente indebitamento dei Paesi sud del Mediterraneo.
Un terzo periodo - che è anche il periodo attuale - è quello del post-bipolarismo.
È anche l'epoca della Rivoluzione dei media e delle neo-tecnologie. È una fase ancora tutta da valutare, puntualizzata dalla risorgenza di tensioni latenti, crisi, conflittualità di vario genere e natura, una fase la cui unica certezza è quella di un nuovo disordine.

4. "La fine dell'equilibrio bipolare ha segnato la sua sostituzione con un nuovo tipo di disordine - afferma Dan Segre - e mantiene uno stato di instabilità in Medio Oriente. Esso si ripercuote su una vasta zona mediterranea, in cui molti Paesi europei (fra cui l'Italia) hanno interessi storici particolari" (3) . Come si è detto, è un disordine inquietante per l'Europa - che deve rivedere i propri modelli di sicurezza e i suoi sistemi di forza e sicurezza - ma è un disordine non meno inquietante per tutto l'arco sud del Mediterraneo e il Medio Oriente, i cui tradizionali punti di riferimento sono venuti a saltare lasciando un innegabile vuoto di potere. Non vi è dubbio che questo vuoto di potere sta - alle soglie del terzo millennio - rimettendo ancora una volta in discussione equilibri, rapporti di forza e di potere.
L'Islam che ci si presenta è un Islam "accerchiato" dall'Occidente, la cui sicurezza è sempre più lo specchio della sicurezza dell'Occidente stesso.
Si tratta di un Islam profondamente lacerato al proprio interno, insanguinato da gruppi di opposizione sempre più radicali ed estremisti, dove, alla violenza delle forze scatenate dal vuoto lasciato dalla fine del bipolarismo si sovrappongono sia la crescente evanescenza degli Organismi internazionali (soprattutto le Nazioni Unite) che le nuove regole imposte dalla globalizzazione delle relazioni e dalla geoeconomia.
In questo contesto si può a mio avviso collocare anche la ripresa del movimento salafita e le nuove correnti della Salafiyyah in un po' tutta l'ecumene islamica.
Non vi è dubbio che alcune leaderships si sono trovate impreparate di fronte alle nuove realtà dei tempi, sia sul piano politico che su quello tecnologico; altre stanno cercando di adeguarvisi, con l'appoggio tecnico e l'assistenza finanziaria dell'Occidente (molto varia nelle misure e nelle forme). È comunque una situazione di disordine e incertezza cui vanno ricondotte molte situazioni nella loro drammaticità attuale.
Nel caos che è seguito all'ordine bipolare, i gruppi radicali hanno avuto spazio e gioco per riorganizzarsi nelle "periferie" dei teatri di azione, e, sfruttando al massimo le possibilità offerte dalla rivoluzione informatica e dalle nuove tecnologie della globalizzazione, disponendo altresì della forza proveniente dall'accesso facile a fonti varie di finanziamento (fra cui capitali illeciti, come criminalità e narcotraffico), questi si sono ripresentati con volto nuovo e nuove linee di azione. Dietro la follia apparente di taluni gesti, esiste una spiegazione estremamente logica e razionale delle nuove dinamiche di violenza e militanza.
Come è stato già detto e scritto in questa stessa sede (4) , quando lo scenario è tranquillo sia in ambito interno che nel più ampio quadro del contesto internazionale, le misure ordinarie continuano a contribuire alla prevenzione di rischi e minacce, fungendo da deterrente. Ma allorché le leaderships si sono venute a trovare di fronte a momenti di crisi o a emergenze di altra natura (minacce di aggressioni, aggressioni vere e proprie, esplosione di forze di opposizione militanti, conflittualità religiose-interreligiose, oppure conflittualità etnico/tribali-interetniche e intertribali, oppure ancora calamità naturali di portata catastrofica), a questo punto la nuova dimensione del sistema impone che vengano riadattate anche le tradizionali tecniche di prevenzione e sicurezza. Le possibilità di successo saranno direttamente proporzionali alle possibilità di definire con un certo anticipo le intenzioni dell'aggressore, le "potenzialità" della minaccia, le qualità dell'emergenza. In questo caso - come si è anche già sottolineato - la sicurezza non è più un sistema individuale, non è più il risultato di un'azione esclusivamente nazional-individuale e autarchica. Essa diventa un sistema necessariamente collettivo-cooperativo, un sistema multi-dimensionale non soltanto di natura militare, un sistema in cui la dimensione economico-finanziaria sta acquistando valenze e contenuti sempre più dominanti (5) .
Se - come si è detto sopra - le militanze attive durante il regime bipolare si ponevano essenzialmente targets politici (al di là del lessico, in cui termini di "giustizia sociale" e "giustizia economica" ricorrevano abbondantemente, oppure slogan scontati di natura anti-sionistica), adesso qualcosa sta cambiando profondamente anche negli obiettivi di lotta.
È questo il punto essenziale, che fa riflettere e induce a un'analisi nuova anche del linguaggio usato da queste militanze nei rispettivi proclami.
Nulla esce dalla prassi dei decenni che hanno preceduto e dalle varie fasi di cui si è detto. Da parte governativa si sta operando per (ri)organizzare i rispettivi sistemi di sicurezza (squadre speciali, intercettazioni, aggiornamenti neo-telematici (6) , prevenzione in generale) e introdurre quelle "rettifiche" politico-istituzionali che spuntino le ali alle opposizioni recuperandole al potere (su questa via si è mossa perfino l'Arabia Saudita). Dall'altra parte, viceversa, ossia da parte eversiva, le militanze che si vengono a loro volta (ri)organizzando ripropongono antichi temi di lotta, che, in sostanza, reclamano come in passato il ricambio generazionale, e il rinnovamento dell'Islam e della società attraverso un nuovo Patto Sociale che legittimi l'Autorità. Il tema centrale che riecheggia nel loro lessico politico è quello della "kufrah".
Ma - al di là di tutto ciò - si possono leggere dei cambiamenti sostanziali.
Finita la fase del bipolarismo, non è più il "potere politico" il fine ultimo da difendere o da conquistare.
Chiusa la fase bipolare, i rischi e le minacce alla sicurezza nazionale non provengono più da fasce di opposizione (direttamente o indirettamente) finanziate e appoggiate da una o altra Superpotenza, le quali scendono variamente in campo con azioni eversive mirate alla destabilizzazione di un determinato regime e al suo rovesciamento, in modo da provocare con questo la destabilizzazione di una regione. Gli interessi dell'Occidente sono invariati rispetto al passato: priorità assoluta resta la stabilità della regione, oggi più che mai. E con questo obiettivo prioritario, l'Occidente non ha finora cessato di "pagare" la propria sicurezza in termini di stabilità regionale, per avere accesso alle preziosissime fonti energetiche. Ma tralasciando questo scenario, e tornando alle militanze, che non hanno cessato di esistere, queste - ben riorganizzate sul piano dei finanziamenti, ben addestrate sul piano delle tecnologie di lotta - stanno tuttavia attuando una strategia diversa, una strategia che si può continuare a definire "anti-regime", ma che mira a obiettivi diversi, non essenzialmente politici.
Ossia, più che al rovesciamento di un regime, che forse non interessa poi tanto più a nessuno, le strategie poste in atto sembrano mirare soprattutto a una "compartecipazione al potere politico", intesa in termini di "accesso alle ricchezze del Paese e loro gestione".
E qui entrano in gioco le dimensioni nuove del sapere inteso come esercizio del potere. L'ideologico provvede a coprire - spesso a posteriori - l'azione nella sua più cruda realtà.

5. Veniamo dunque al modello Giordano e alla organizzazione ed emergenza di nuovi gruppi di opposizione, che si ricollegano ideologicamente alla Salafiyyah.
La solidità del patto sociale su cui poggia il consenso popolare è l'unica reale garanzia di stabilità. L'alterazione di questo equilibrio potrebbe minare la stabilità del regno Hashemita, provocando - come si è detto sopra - la disintegrazione del Paese, e una ripresa dei tradizionali individualismi e particolarismi locali a base etnico-culturale e tribale. La scelta politico-strategica della Famiglia regnante è stata ben precisa. La Monarchia Hashemita si è infatti venuta movendo secondo scelte politiche - e di sicurezza interna ed estera - ben precise: 1) rafforzamento delle forze islamiche moderate, recupero al potere e dialogo con queste forze moderate; sradicamento delle militanze e dei gruppi terroristici; 2) compenetrazione dei vari gruppi etnico-religiosi e dialogo; 3) alleggerimento del problema demografico mediante un'oculata politica di impiego delle risorse umane con particolare riguardo all'istruzione, al potenziamento delle infrastrutture civili (scuole, istituti tecnici e scuole superiori, università, ospedali ecc.), al turismo, all'artigianato e al manifatturiero, ai trasferimenti di tecnologia; controllo della spesa militare e riforma dell'esercito; 4) interventi in materia ecologica, soprattutto migliore sfruttamento delle risorse idriche disponibili e potenziamento dell'agricoltura, rimboschimento ecc.; 6) prosecuzione ad ogni costo sulla via del dialogo per raggiungere - con la pace con Israele (1994) - anche l'obiettivo di garanzie internazionali per la propria sicurezza interna ed estera. Come si è sopra anche accennato, tali scelte - portate avanti con coerenza e sistematicità - sottolineano la percezione che la monarchia giordana ha della prospettiva mondiale e internazionale, della sua evoluzione fino alle realtà attuali, in termini di globalizzazione delle relazioni, geoeconomia, rivoluzione dei media e delle neo-biotecnologie, altrettanti punti di precise e coraggiose scelte strategiche.
In questo contesto si pongono anche i rapporti della Corona con la Fratellanza Musulmana.
L'introduzione della monarchia costituzionale aprì un dibattito sul ruolo dell'Islam in Giordania. Tale dibattito ebbe una sua centralità non soltanto intellettuale-religiosa, bensì anche - se non soprattutto - politica. Esso segnò - con la salvezza della Monarchia - anche il recupero dell'opposizione all'interno delle strutture stesse di potere, e il suo coinvolgimento nell'esercizio del potere nella delicata fase di transizione seguita all'assassinio di re ‘Abdallah e alle sconfitte militari, attraverso il controllo che la Fratellanza aveva dei media e la sua presa su larghissime fasce della popolazione palestinese. Ha consentito operazioni di durissima repressione anti-terroristica (Settembre Nero), e ha dato alla Monarchia quella stabilità interna indispensabile per avviare un processo reale di modernizzazione e sviluppo. Le votazioni parlamentari del 1989 hanno dato un riconoscimento de jure alla posizione che l'Associazione aveva ormai di fatto nelle cose interne del Paese.
E così, in Giordania, questa è divenuta una struttura riconosciuta formalmente, la quale nell'ultimo decennio è tornata ad animare e ravvivare i dibattiti letterari e il movimento Islamico (7) . La Associazione dei Fratelli Musulmani si presenta come una formidabile struttura sociale all'interno del regno, articolata in una grande quantità di sezioni, e varietà di organismi e organizzazioni, incluse quelle associazioni ed enti assistenziali e culturali, che costituiscono il volto più familiare e tradizionale della Fratellanza Musulmana. Tale alto profilo ha portato a vasti reclutamenti all'interno delle fasce sociali delle professioni, consentendo all'Associazione un autentico successo elettorale, e quindi - attraverso "The Islamic Action Front Party" - essa è entrata nel gioco politico del Paese. Si è trattato di un vero e proprio recupero dell'opposizione al governo, oggetto di numerosi studi da parte di analisti e specialisti; soprattutto da parte della letteratura americana, questo è stato portato come uno dei più eccellenti "casi-esempio" di buone relazioni "between democracy and Islam and Islamic Movements" (8) .
Il movimento salafita esisteva in Giordania sin dagli anni ‘70. Da allora, esso è cresciuto considerevolmente.
La "Salafiyyah" si pone come un movimento rigorista islamico, di ritorno all'originaria purezza delle fonti, intese come diretta rivelazione divina attraverso il Corano e la Sunna. In merito a quest'ultima operano tuttavia alcune distinzioni di lettura e di metodo. Non tutti gli hadith (o hawadith, pl.) sono riconosciuti come validi, ma soltanto quelli che si rifanno nella "catena" dei tradizionisti ai Salaf, ossia ai primi Compagni del Profeta. I Salafiti ritengono infatti che, poiché i Salafi hanno ascoltato direttamente da Maometto le rivelazioni e sono stati testimoni oculari dei suoi detti, fatti e silenzi allorché ispirato da Dio, solo loro possono consentire una conoscenza "pura", scevra da deviazionismi o sovrastrutture, dell'Islam. Solo il Corano e quella parte della Tradizione che fa capo ai Salafi sono fonti autentiche di diritto. Ogni altra interpretazione o applicazione della Sunna viene considerata come "non Islamica".
La struttura del movimento salafita in Giordania si distingue nettamente da altre associazioni religiose, in primis dalla Associazione dei Fratelli Musulmani. Mentre quest'ultima è ben strutturata e riconosciuta formalmente dallo Stato, la Salafiyyah è rimasta una struttura informale, che si appoggia a strutture informali legate essenzialmente a rapporti personali e a tutta una rete trasversale di conoscenze individuali. Ciò che unisce fra loro gli adepti è il comune sentire religioso, la comune convergenza verso i principi base dogmatico-religiosi della Salafiyyah, esperienze comuni, fratellanza e legami estremamente fluidi ma non meno profondi fra Maestri e Allievi.
Nell'ultimo decennio, la Salafiyyah si è venuta sempre più diffondendo; contemporaneamente, essa ha decisamente preso le distanze dalla Associazione dei Fratelli Musulmani e dalle sue varie organizzazioni, rivendicando una propria identità come movimento. Sotto questo profilo, si può dire che, mentre nei decenni precedenti essa aveva sostanzialmente connotazioni filosofiche-teologiche, a partire dal 1990 circa ha cominciato a caricarsi di contenuti anche politici e nettamente anti-governativi. Fra i suoi adepti conta numerose personalità religiose, sheykhs e ‘ulemà, e un largo seguito fra gli studenti. Questi ultimi si riuniscono più o meno settimanalmente in circoli per ascoltare i loro "Maestri", costituendo una rete sempre più vasta, fluida e inafferrabile. Alla Associazione dei Fratelli Musulmani viene opposto di essere penetrata in Giordania come struttura di contestazione politica, e, quindi, di essersi organizzata in sezioni che - lasciatesi coinvolgere dal potere - sono totalmente venute meno a questa missione primitiva. Donde il distacco e la riorganizzazione in gruppi-movimenti separati, che si articolano soprattutto su contatti e legami personali anche transfrontalieri, e postulano la mobilitazione e l'azione collettiva.
È una precisa scelta strategica, che impiega tattiche largamente sperimentate altrove. La fluidità e il moltiplicarsi di siffatte cellule informali ne rende difficile l'individuazione e la catalogazione; ancor più difficile - da parte governativa - è la loro registrazione, controllo ed, eventualmente, repressione.

6. Come noto, due espressioni tipiche dell'Islam sono la "personalità" e la "extraterritorialità" di ogni movimento sociale; queste due connotazioni fanno di ogni movimento islamico qualcosa di unico, a sé stante. Il balzo in avanti compiuto dalle tecnologie dell'informatica e il regime della globalizzazione hanno ulteriormente accentuato questa peculiarità. Le teorie classiche della sociologia dell'azione collettiva, della organizzazione di movimenti di gruppo o di massa, dell'utilizzo di risorse umane, materiali e finanziarie non sono né applicabili né compatibili con i movimenti islamici, soprattutto quando questi si coagulino come movimenti di opposizione, e si strutturino come unità militanti (9) . Strutture relazionali informali sono la loro componente tipica, basate su rapporti tribali, legami clanico-familiari o patrono-clientelari, dove prevalgono i codici della "reciprocità" e le griglie della wastah. Su queste tematiche esiste una letteratura estremamente ricca, soprattutto quando ci si riferisca al contesto urbano e, nello specifico, al fenomeno della urbanizzazione e delle megalopoli (10) .
L'Occidente sentì parlare apertamente di Salafiyyah agli inizi del secolo ventesimo, quando il movimento Wahhabita andò al potere nella Penisola Arabica con gli Al Sa‘ud nel 1924-1925, con l'appoggio e la benevola assistenza dell'Inghilterra; il wahhabismo, infatti, si rifà ai principi giuridico-teologici della Salafiyyah. È difficile precisare quando le dottrine salafite hanno cominciato a diffondersi in Giordania.
Se ne cominciò a parlare fra la fine degli anni ‘60 e l'inizio degli anni ‘70; gruppi salafiti si erano venuti organizzando a seguito del rimpatrio di giovani studenti, che si erano recati in Egitto, Libano e Siria per perfezionare i loro studi. E ciò è spiegabile con il fatto che in Giordania non esistevano scuole teologiche di grande fama; viceversa, l'aura di cui era circondato uno sheykh salafita siriano, Muhammad Nasir al-Din al-Bani, morto nell'ottobre 1999, aveva attirato questi giovani, che - anche se interessati allo studio di materie scientifiche - amavano andare ad ascoltarlo e si riunivano intorno a lui. Egli cominciò ad essere invitato in Giordania, cosicché, quando nel 1979 Asad mise in atto una violenta campagna contro i movimenti islamici siriani di opposizione, lo Sheykh si trasferì in Giordania. L'arrivo di al-Bani provocò un'esplosione vera e propria di sentimenti salafiti: la sua fama, la sua aura di "santità", equità, sapienza e saggezza attirò molti giovani in cerca di una "guida" nello studio dell'Islam. Non vi è dubbio che questi fosse dotato di notevole ascendente e carisma personale. Ciò non deve stupire, soprattutto se si considerano le origini della Corona Hashemita, una delle più nobili tribù dell'Islam cui apparteneva lo stesso Profeta, estromessa dalla Mecca dai Wahhabiti Al-Sa‘ud.
Gli anni Ottanta segnano comunque quella che si potrebbe definire come una "seconda ondata salafita" in Giordania.
Il movimento salafita, fino ad allora movimento essenzialmente teologico-culturale, senza contenuti politici particolari, più che altro un'esigenza dialettica di pochi ma ardenti appassionati di cose religiose, si struttura. Molti di quei giovani che si erano interessati di Salafiyyah negli anni ‘60, divengono ormai a loro volta altrettanti sheykh, maestri di dottrine salafite. Lezioni, discorsi, riunioni in cui venivano propugnate le dottrine della Salafiyyah si fanno sempre più numerose, anche in virtù della presenza di al-Bani e della sua reputazione. Si dice che una calda notte d'estate, questi tenesse un discorso improvvisato sul tetto della sua residenza; la gente che si riunì per ascoltarlo riempì tutte le strade circostanti e i tetti delle case vicine: oltre cinquecento-seicento persone. Non è più l'appassionato interesse dottrinale di pochi; l'evento acquista carattere e connotazioni di vero e proprio "Islam parallelo", un Islam individuale, volatile, del tutto informale, ben distinto per contenuti e percorsi da quello ufficiale della Fratellanza Musulmanan (11) . Fu a questo punto che il regime cominciò a prendere le distanze dal movimento.
Dopo il 1979 si verificò inoltre un secondo fenomeno, che contribuì a trasformare radicalmente il movimento salafita in Giordania. Un gruppo di guerrieri che avevano combattuto in Afghanistan, impregnati di dottrine di militanza armata cominciarono ad affluire nel movimento. In Asia Centrale, le dottrine salafite erano particolarmente diffuse. Questi mujahedin si unirono ai gruppi di "studio" giordani, e ne arricchirono i contenuti dottrinali di nuove valenze: atteggiamenti critici nei confronti del regime e del sistema politico nel suo complesso, militanza, legittimità "islamica". Il loro addestramento militare portò altresì una carica di aggressività, che si strutturò in veri e propri gruppi di "jihad", sfidare lo Stato con la violenza. Cominciano a formarsi dei movimenti clandestini, vere e proprie unità militanti, le cui attività si intrecciano strettamente con quelle degli altri gruppi, al punto che - in questa prima fase - è difficile operare delle distinzioni sulla base delle informazioni disponibili. Si tratta di movimenti che propugnano il "jihad", usano un lessico politico abbastanza convenzionale, e, soprattutto, come unità combattenti si spostano da un fronte all'altro, ritrovandosi gli stessi personaggi ora in Egitto ora in Pakistan. Fra questi si può ricordare Salim al-Rahhal, ex-studente di al-Azhar e giordano di nazionalità, il quale faceva parte di organizzazioni sovversive egiziane fra il 1977 e il 1979, confluite nella Tanzim al-Jihad (Organizzazione del Jihad), che rivendicò nel 1981 l'assassinio di Sadat (12) .
Dopo la prima Guerra del Golfo (1990-1991), la dottrina del jihad ebbe ulteriore mordente fra i gruppi salafiti, indignati soprattutto dall'atteggiamento di Riyadh, che aveva consentito a contingenti militari non-Musulmani di utilizzare il sacro territorio saudita per combattere un Paese musulmano (13) . Il lessico si caricò di nuova aggressività politica, che coinvolgeva tutti quei regimi islamici che avevano dato il loro appoggio al blocco occidentale. Il tema centrale restò quello della "kufra". Il risultato fu l'organizzazione di numerose unità militanti, di cui, emblematica, fu quella conosciuta come il gruppo "degli Afgani"; a questo furono imputati nel 1994 una serie di attacchi terroristici contro cinema, spacci di alcolici, night-clubs e negozi in cui venivano vendute cassette, video-cassette e altro, considerati i simboli della cultura e della decadenza occidentale; a questo stesso gruppo fu imputato di avere complottato per assassinare quelle personalità (funzionari e ufficiali dell'Esercito), che avevano portato avanti i negoziati di pace con Israele (14) .
Nell'ottobre 1996, i servizi di sicurezza giordani scoprirono un altro gruppo di jihad che faceva capo alla Salafiyyah, chiamato Bay‘at al-Imam; i suoi membri furono arrestati e accusati di avere complottato per assassinare membri della famiglia reale; il leader di questo gruppo era Abu Muhammad al-Maqdisi (conosciuto anche come Muhammad Tahir Muhammad), ardente propugnatore delle dottrine di jihad. Uno scritto che circolava clandestinamente, ripropone le tematiche tradizionali di takfir nei confronti del regime, accusato di governare senza seguire i sacri, inviolabili, immutabili principi della shari‘ah, e di non conformarsi alla interpretazione più rigida della Sunna del Profeta (ossia le dottrine salafite di cui si è detto sopra); in base a questo assunto, al-Maqdisi invocava il jihad contro la famiglia reale e l'establishment al governo, nell'obiettivo ultimo di rifondare lo stato su base realmente e genuinamente islamica. Gli scritti di al-Maqdisi hanno avuto larga diffusione anche al di fuori della Giordania, e hanno dato vita ad altri gruppi militanti, che ne riconoscevano la guida carismatica (15) .
L'esempio più recente di riformismo islamico, anch'esso ricondotto alla grande casa salafita, è quello del Gruppo di Riforma e Sfida, accusato dai servizi di sicurezza giordani di essere responsabile di attentati nel marzo 1998, inclusa l'esplosione di una bomba alla Scuola Americana di Amman (16) .

7. Quanto precede consente di arrivare a un primo consuntivo. La Salafiyyah si diffuse spontaneamente in Giordania sin dagli anni Sessanta del secolo diciannovesimo, come un'esigenza intimamente sentita di rivisitazione dell'Islam e dei suoi principi, e di studio del fiqh. La famiglia regnante - i Banu Hashem - come si è detto sopra appartiene alla più pura tradizione beduina e proviene dalla Mecca, il luogo santo per eccellenza dell'Islam, meta del "pellegrinaggio" di ogni musulmano almeno una volta nella vita. E proprio La Mecca è la culla (naturale) della scuola giuridica ortodossa più rigida, ossia quella Hanbalita. Il movimento salafita, nel suo purismo, non si pone pertanto in contrasto dogmatico-teologico con le radici culturali della stessa Monarchia. Poi, a seguito di tutta una serie di input interni ed esterni, e per percorsi diversi, si assiste a una frammentazione del movimento.
Sul piano puramente teologico, quanto ha frantumato il movimento salafita giordano al suo interno è stata l'interpretazione del concetto di "takfir" e, in particolare, l'individuazione dei requisiti necessari per dichiarare un sovrano o regime "kàfir" (miscredente) (17) .
I vari gruppi non rifiutano il ricorso alla militanza (jihad bi'l-sayf); su questo vi è comunanza di dottrina; le lacerazioni avvengono sul "come" accertare lo stato di kufra, il quale giustifichi poi l'appello al jihad e il ricorso alla violenza armata.
Negli ultimissimi anni del secolo ventesimo, le posizioni sono venute evolvendo rapidamente sia sul piano concettuale che su quello operativo.
All'interno del movimento salafita, è infatti venuta prendendo sempre più piede un'ala cosiddetta "riformista moderata". Questa postula la tarbiyah - ossia l'istruzione, l'educazione, la cultura - come la vera via per incoraggiare i Musulmani tutti (anche quelli più tiepidi) a conoscere e rispettare i veri principi dell'Islam (18) . Il jihad deve costituire un'alternativa quando la tarbiyah fallisce, una risorsa estrema, non la sola via, per cambiare un Paese e il suo regime; inoltre, sostiene questo stesso gruppo, un'azione avventata può mettere in pericolo l'obiettivo finale, può provocare reazioni e repressioni durissime, impedire la predicazione, impedire la da'wah, ossia il reclutamento (19) .
Un eminente studioso giordano salafita, Salim al-Hilali, sostiene infatti che i Musulmani devono essere molto prudenti nel proclamare kufr uno stato, poiché una siffatta presa di posizione può portare a reazioni violente da parte del governo, come la chiusura delle Moschee e l'imprigionamento di tutti gli studiosi di teologia. "Il cambiamento nell'Islam deve avvenire per il meglio". La Tarbiyah postula che i cambiamenti avvengano gradualmente, attraverso un'azione paziente, capillare, di educazione delle masse ignoranti, dal basso; solo così un sistema può essere trasformato. La violenza è controproducente, e, soprattutto - come sottolinea un altro eminente studioso salafita, discepolo di al-Bani, ‘Ali Hasan al-Halabi - lo stesso Corano è contrario alla violenza, richiama continuamente alla giustizia e alla misericordia; studiando il passato dell'Islam si può facilmente vedere come gli estremismi hanno portato soltanto a disastri per la Comunità dei Credenti (la Ummah), a spargimento di sangue, soprusi e sopraffazioni di ogni genere, e danni così gravi che nessuno - eccetto Allah - è in grado di conoscere e valutare. E, a dimostrazione di quanto afferma, egli richiama l'esempio dei movimenti Kharigiti, passati e presenti (20) .
Il gruppo "riformista" gode, al momento attuale, di largo appoggio e sostegno (anche finanziario) da parte del regime Saudita e di altri governi; una siffatta interpretazione del pensiero salafita consente infatti di opporre alle organizzazioni più radicali e militanti una visione diversa dell'Islam, una interpretazione più moderata, contrapponendo al discorso del "jihad" quello della "tarbiyah", ossia dell'istruzione. Esso può riunirsi apertamente, fare proselitismo, ha sedi e negozi dove vengono venduti gli scritti dei loro sheykh.
Viceversa, i gruppi cosiddetti "di jihad" continuano a muoversi nella clandestinità. Il loro pensiero si rifà a Ibn Taymiyyah, il grande hanbalita che visse a cavallo del secolo XIII, il cui scritto Kitab al-Siyasah al-Shar‘iyyah fi Islah al-Ra‘i wa al-Ri'aiah - violenta accusa ai sultani della sua epoca di non applicare i principi sciaraitici nella gestione dello stato - rappresenta ancora oggi il punto di riferimento di tutte le militanze islamiche; egli esalta il potere militare inteso come esercizio della forza, e requisito essenziale dell'imam; nel suo pensiero, l'esercizio del potere diviene "un sacerdozio, che avvicina l'Uomo a Dio", e la presa di potere con la forza è un atto giuridicamente rilevante - un dovere (fard) - conforme alla Legge divina, inteso a evitare mali peggiori come l'anarchia, le guerre civili oppure ancora la guida della Comunità da parte di prìncipi ingiusti, empi, corrotti ed esempio a loro volta di corruzione (21) . Alcuni aderenti condannano gli Hashemiti come "kafirun", in quanto perseguono politiche "liberaleggianti" e hanno portato alla pace con Israele. Tuttavia, nelle pubblicazioni clandestine scoperte dai servizi di sicurezza nessun membro della casa regnante è menzionato individualmente; il messaggio è però evidente: l'accusa di kafir si basa sulle azioni e sull'operato, non sulle parole. Gli aderenti si autoproclamano "indipendenti" (per prendere le distanze dall'Arabia Saudita, troppo compromessa con l'Occidente) e provengono perlopiù da fasce sociali basse. Si tratta di una minoranza di diseredati, male organizzati e - per il momento - isolati e senza particolare seguito. I "riformisti moderati" ne hanno preso le distanze, e non esitano a condannarli sia nelle dottrine che nell'operato, sostenendo che "non sono Salafiti" (Muhammad Shaqra, ad esempio, un imam della moschea di Amman, salafita riformista-moderato, e di alta reputazione).
Un altro autore cui la Salafiyyah fa spesso riferimento è Sayyid el-Qutb, l'ideologo egiziano della Fratellanza Musulmana, i cui scritti appassionati sono oggetto di studio e analisi, argomento di seminari e conferenze, chiave di lettura di avvenimenti moderni e contemporanei, quali la crisi bosniaca, l'egemonia degli Stati Uniti, il ruolo delle Nazioni Unite, il movimento Taliban in Afghanistan, ecc. Quanto ad al-Bani, nonostante la sua reputazione soprattutto come lettore e interprete di hadith, viene oggi ritenuto debole nel fiqh; le sue fetwa' hanno avuto minimo impatto sul movimento. Sebbene spesso si fosse servito dell'Arabia Saudita per pubblicare e divulgare suoi scritti, egli tuttavia è sempre stato ritenuto indipendente dai Sauditi (22) .
Nel complesso, emerge che le diverse frammentazioni all'interno della Salafiyyah giordana nel suo complesso non hanno avuto luogo sui principi o sui contenuti, quanto sulla strategia da attuare per arrivare a una riforma e a un reale cambiamento dello stato.
Anche ridimensionando le unità militanti come portata e azione, non vi è tuttavia dubbio che la Salafiyyah - a partire dal 1990 - è divenuta una realtà all'interno della Giordania, una struttura con cui la Famiglia regnante non può non confrontarsi.
L'Intelligence Directorate giordano (Mukhabarat), a partire dal 1989 ha messo in atto diverse misure per ostacolare il diffondersi delle dottrine salafite: controlli, limitazioni alle riunioni o all'istituzione di centri, passaporti, possibilità di impiego, ostruzionismo a permessi già concessi ecc., in rigido contrasto con la politica adottata nei confronti della Fratellanza Musulmana. Ma la fluidità dei contatti, la personalità delle relazioni, la flessibile sottile rete che tiene insieme il movimento, l'avanzamento delle tecnologie dell'informatica rendono oltremodo difficili controlli capillari; gran parte della propaganda ha luogo anche tramite video e cassette. ‘Ali Hasan al-Halabi, ad esempio, possiede una delle più grandi e fornite librerie di Zarqa; in tutta Amman esistono un'infinità di altri negozi, cartolerie e librerie più piccole, e così in un po' tutta la Giordania (23) .

8. Tornando al discorso fatto in premessa, non vi è dubbio che il movimento salafita - nelle sue molteplici sfaccettature - ormai sia una realtà, una nuova espressione a sua volta delle dimensioni nuove del sapere e della sua "organizzazione", e della "organizzazione della società" intorno sia al sapere moderno e alle nuove tecnologie del sapere, sia intorno al sapere "tradizionale" e ai suoi "codici fondamentali".
Con il recupero al potere della Associazione dei Fratelli Musulmani (formalizzato con le votazioni del 1989), la Corona Hashemita ha dimostrato di volere (e sapere) colmare lo iato fra innovazione tecnologica e tradizione. Orbene, come si è detto sopra, il rapido diffondersi della dottrina salafita e la sua strutturazione in tutta una serie di filiazioni e movimenti diversi ha assunto proporzioni consistenti proprio nel 1989. Forse ciò non è una coincidenza del tutto casuale. E può anche leggersi come la intima esigenza da parte del popolo palestinese di non perdere la propria individualità, di dare nuova linfa al processo di conservazione del sapere tradizionale più puro; prendendo le distanze in maniera netta e sicura dalla Fratellanza Musulmana - in Giordania la più autorevole voce di "quel" sapere tradizionale - ha altresì dimostrato di considerare quella Organizzazione come ormai compromessa con il potere e la sua gestione. E d'altronde, il grande sviluppo degli studi degli scritti di Ibn Taymiyyah, ma, soprattutto, di Seyyid el-Qutb, il grande ideologo della Fratellanza che pagò con una lunga prigionia e la morte la coerenza ai propri princìpi e convincimenti, possono costituire una spiegazione convincente della necessità avvertita da questi "studiosi di teologia islamica" di rivisitare la tradizione e le sue interpretazioni "più rigorose".
I balzi in avanti del sapere tecnologico hanno certamente portato a un periodo di transizione e a trasformazioni sempre più evidenti e impressionanti della vita e della società giordane. E sempre in questo contesto, il movimento dei Salafiti moderati-riformisti della Tarbiyah acquista un significato particolare. Essa può rappresentare la nuova svolta verso dimensioni nuove di un sapere che è tecnologico e tradizionale al tempo stesso. Non vi è dubbio che i media - la grande realtà rivoluzionaria della fine del secolo-inizio nuovo millennio - vengono ri-plasmando inesorabilmente gli strumenti del potere, divenendo a loro volta uno strumento indispensabile per l'esercizio e la conservazione del potere stesso, come si è anche sottolineato in premessa. Tale processo, tuttavia, non è mai disgiungibile - soprattutto in ambito islamico - da un processo inverso, quello cioè della conservazione del sapere tradizionale, della sua registrazione, e, con questa, della ricerca e riscoperta di quelle istituzioni e di quei "codici" che ne hanno costituito gli strumenti indispensabili nel corso della vita e della storia dell'Islam. E, ancora una volta, sono estremamente significativi in tal direzione gli scritti di al-Halabi (il cui pensiero è stato più volte richiamato). La Tarbiyah - o meglio, i suoi esponenti più illustri e influenti - sembra avere percezione e consapevolezza di questo fenomeno.
Spingendo pertanto più avanti questa analisi, si può arrivare a concludere che - senza particolari fratture rispetto al passato e senza brusche soluzioni di continuità nella linea politica fino ad oggi perseguita - la Famiglia regnante e il suo establishment hanno cominciato a registrare questa nuova realtà in una equilibrata complementarità di ruoli, che sembrerebbe volere implicare il recupero al potere di quella larga fascia moderata della "tradizione" - ovverosia la Salafiyyah della Tarbiyah -, la quale, nell'istruzione, nella cultura e nel largo pacifico impiego delle tecnologie dell'informatica, individua "la via retta" per ogni trasformazione, evoluzione e cambiamento. Si ricompone così ancora una volta la relazione fra sapere tecnologico e sua memoria da un lato, e tradizione dall'altro; si eviterebbero così nuovi iati, sperequazioni, destabilizzazione, conflittualità interne e fratricide. Si potrebbe in tal modo dare infine una lettura plausibile anche alla recentissima sterzata della Mukhabarat e alla sua "tolleranza".


(1) Sull'argomento è stato già detto e discusso in altra sede, per cui rinvio al lungo saggio: V. Piacentini Fiorani, Islam. Analisi dei rischi e possibili riflessi sulla sicurezza mediterranea, in Idem, Processi di Decolonizzazione in Asia e in Africa, specif. Capitolo Sesto, pp. 275-333, I.S.U. - Università Cattolica, Milano, 2000. Il concetto di "jahiliyyah", ossia "ignoranza", ricorre perlopiù nell'ideologico di opposizione asiatico.
(2) Si veda nota precedente, e, specificamente, le pagine 299 sgg. relative al "caso Egitto" e diramazioni, e bibliografia in riferimento. Per le dottrine di neo-kharigismo, che si ritrovano all'interno del pensiero salafita giordano (per cui si veda più avanti la nota), v. lo studio di J.J.G. Jansen, The early Islamic movement of the Kharidjites and modern Moslem extremism: similarities and differences, Orient 1986, 1; e Y. Al-Qardawi, Islamic Awakening between Rejection and Extremism, ed. e trad. inglese da un'edizione Il Cairo-Beirut, Herndon - Virginia, 1995.
(3) Dan V. Segre (a cura di), Società civile e processo di pace in Medio Oriente, Collana Ce.Mi.S.S., Fr. Angeli ed., Milano, 1996, p. 10.
(4) Vittorfranco S. Pisano, Terrorismo e intelligence di prevenzione, Per Aspera ad Veritatem, IV (1998), 12: pp. 799-818.
(5) Sul tema della sicurezza come sistema necessariamente cooperativo-collettivo e multidimensionale, è stato scritto in più occasioni e sedi. In particolare si rinvia ad alcuni articoli e conferenze di Carlo Jean, e, come caso specifico, esempio regionale, al volume V. Fiorani Piacentini, Asia Centrale. Verso un sistema collettivo di sicurezza, Fr. Angeli, Collana del Centro Militare di Studi Strategici, Milano, 2000.
(6) Si veda ad esempio, in questa stessa sede, Navigando sulla Rete: l'intelligence nel World Wide Web, Per Aspera ad Veritatem, VI (2000), 16: pp. 325 sgg.).
(7) A. Cohen, Political Parties in the West Bank under the Jordanian Regime, 1949-1967, Ithaca, N.Y., Cornelle University Press, 1980; B. Milton-Edwards, A temporary Alliance with the Crown: the Islamic Response in Jordan, in J. Piscatori ed., Islamic Fundamentalisms and the Gulf Crisis, Chicago: Fundamentalism Project of the American Academy of Arts and Sciences - 1991; A.S. Roald, Tarbiya: Education and Politics in Islamic Movements in Jordan and Malaysia, Stockholm, Almqvist and Wicksell, 1994; Sabah El-Said, Between Pragmatism and Ideology: The Muslim Brotherhood in Jordan, policy paper n. 39, Washington Institute for Near East Policy, Washington D.C. 1995; Lawrence Tal, Dealing with Radical Islam: The case of Jordan, Survival 37 (1995), 3: pp. 1398-1456; L. Taraki, Jordanian Islamists and the Agenda for Women: between Discourse and Practice, Middle Eastern Studies 32 (1996), 1: pp. 140-158; Q. Wiktorowicz, Islamists, the State, and Cooperation in Jordan, Arab Studies Quarterly 21 (1999), 4: pp. 1-17.
(8) Oltre alle voci citate nella nota precedente, si veda in particolare L. Schull Adams, Political Liberalization in Jordan: an Analysis of the State's Relationship with the Muslim Brotherhood, Journal of Church and State, 38 (1996), 3: pp. 507-528; L. C. Robinson, Liberalization, the Islamists, and the Stability of the Arab State: Jordan as a Case Study, Muslim World 86 (1996), 1: pp. 1-32; G.E. Robinson, Can Islamists be Democrats? The Case of Jordan, Middle East Journal 51 (1997), 3: pp. 373-388. Un dibattito su questi gruppi islamici è stato viceversa aperto dalla letteratura in lingua araba, con particolare riguardo ai movimenti più radicali in Giordania. Fra i contributi più significativi, mi limito a richiamare: ‘Awni Jadu‘a al-Abidi, Hizb al-Tahrir al-Islami, Amman - Dar al-Liwa, 1993; Musa Zayd al-Kaylani, Al-Harakat al-Islamiyyah fi'l-Urdun, Amman - Dar al-Banshir, 1990; Ibrahim Ghuraybah, Jama‘at al-Ikhwan al-Muslimin, 1946-1996, Amman - Al-Urdun al-Jadid Research Center 1997; materiali ben documentati e di particolare interesse sulle diverse espressioni dell'Islam e sue organizzazioni in Giordania sono accessibili presso due centri di ricerca analisi in Giordania: "Al-Urdun al-Jadid Research Center" (www.ujrc-jordan.org) e il "The Middle East Studies Center" (www.mesc.com.jo), cui si farà spesso riferimento in questo studio.
(9) Sulla mobilitazione delle risorse e le teorie dei movimenti sociali, si veda lo studio di J.D. McCarthy ed., Social Movements in an Organizational Society, New Brunswick, N.J., Transaction Books, 1987. Cfr. anche A. Oberschall, Social Conflict and Social Movements, Englewood Cliffs, N.J., Prentice Hall, 1973; W.A. Gamson, The Strategy of Social Protest, Homewood, Illin., Dorsey Press, 1975.
(10) Si tratta di fenomeni ricorrenti, ovunque e in tutte le epoche della storia dell'Islam. Estremamente significativi in merito sono gli studi di Ira Lapidus, Muslim Cities in the Late Middle Ages, Cambridge, Cambridge University Press, 1967; Idem, Hierarchies and Social Networks: a Comparison of Chinese and Islamic Societies, in F.J. Wakemann ed., Conflicts and Control in Late Imperial China, Berkeley, University of California Press, 1975. Per quanto riguarda il contesto urbano, e soprattutto il contesto di megalopoli, sono estremamente accurati gli studi di: E. Gellner and J. Waterbury eds., Patron and Clients in Mediterranean Societies, London, Duckworth, 1977 e le analisi di G. Denoeux, Urban Unrest in the Middle East: a Comparative Study of Informal Networks in Egypt, Iran and Lebanon, Albany, State University of New York Press, 1993, e D. Singerman, Avenues of Participation: Family, Politics and Networks in Urban Quarters of Cairo, Princeton, N.J., Princeton University Press, 1995.
(11) È difficile operare una stima degli aderenti al movimento salafita, proprio per la sua organizzazione informale, dove sono del tutto assenti liste dei membri o alcunché possa consentire di documentarne l'adesione. Anche se i Salafiti affermano - a parole - di essere un gruppo estremamente numeroso, numeroso almeno quanto l'Associazione dei Fratelli Musulmani, è tuttavia impossibile dare stime attendibili. Cfr. Q. Viktorowicz, The Salafi Movement in Jordan, International Journal of Middle East Studies, 32 (2000), 2, pp. 219-240, specif. pag. 239 nota 22.
(12) Questi nuovi gruppi militanti giordani contano - al loro interno - i movimenti noti come "L'Esercito di Maometto" e "L'Avanguardia della Gioventù Islamica". Per notizie più in dettaglio su queste unità, si rinvia a B. Milton-Edwards, Climate of Change in Jordan's Islamist Movement, in Abdel Salam Sidahmed and A. Ehteshami, Islamic Fundamentalism, Boulder, Col., Westview Press, 1996. Il Fundamentalist Watch (25 March 1997, n.107) riporta una serie di informazioni su questo Salim al-Rahhal e le vicende dei gruppi di "jihad" egiziani.
(13) Sebbene la dottrina contempli la possibilità in caso di guerra o minaccia seria all'Islam e alla Comunità dei (veri) Credenti di accettare aiuti da parte di "Non Credenti", su questo punto non tutta la giurisprudenza islamica è d'accordo. Solo sulla liceità dei soccorsi non strettamente tattici vi è unanimità di vedute. Si veda V. Piacentini Fiorani, G. Ligios, Il pensiero militare nel mondo musulmano, Rapporto di Ricerca Ce.Mi.S.S., Rivista Militare-Collana del Centro Militare di Studi Strategici, Roma 1991, vol. III, specif. pp. 117-118.
(14) Jordan Times, 29 September 1996.
(15) Secondo la confessione di quattro arrestati e processati, sembra che l'attentato di Riyadh, in Arabia Saudita, del novembre 1995, nel corso del quale sarebbero rimasti uccisi cinque americani e due ufficiali indiani, sia stato ispirato da membri del movimento salafita che faceva capo ad al-Maqdisi. Si veda anche Jordan Times, 18 August, 1997.
(16) Jordan Times, 11 May 1998 e 23 May 1998.
(17) Sulla interpretazione di "takfir" all'interno del riformismo salafita, si veda Ahmad Fareed, On the Issue of Takfir, Suffolk, U.K., Jami‘iat Ihyaa Minhaaj al-Sunnah, 1997.
(18) ‘Ali Hasan al-Halabi (ossia l'Aleppino, il discepolo del siriano al-Bani), "Tarbiyah": the Key to Victory, Al-Ibanah 2 (1995): pp. 15-19. Su questo concetto, si veda anche sopra lo studio già citato di Roald.
(19) Esula da questo discorso quello sui tabligh, fenomeno al momento non particolarmente diffuso in Giordania. Il termine "tabligh" è stato tradotto in maniere assai varie e spesso erronee. Esso comunque implica un contenuto "missionario", di predicazione e invito alla "vera" fede. Per le sue diverse definizioni e contenuti social-sociologici, rinvio a Esposito ed., Oxford Enciclopedia, vol. IV: Muhammad Khalid Masud, sub voce "Tabligh". Per quanto concerne la "Jama‘at Tabligh", si veda Ahmad Mumtaz, ibid., vol. IV, sub voce. È difficile distinguere i membri della "salafiyyah" da quelli del "tabligh", anche perché entrambi fanno riferimento a principi analoghi per lessico e contenuti religiosi. I Salafiti, tuttavia, non condividono l'uso della da‘wah dei "tabligh", e il loro oggetto è quello dello "studio approfondito del diritto islamico e, in particolare, del "fiqh", non tanto quello del proselitismo "missionario".
(20) ‘Ali Hasan al-Halabi, Fundamentals of Commanding Good and Forbidding Evil according to Shaykh Ul-Islam Ibn Tamiyya, Cincinnati, Al-Quran Wa's-Sunnah Society of North America, 1995, 2. In questo volume, al-Halabi tenta una revisione del pensiero di Ibn Taymiyyah in chiave moderata; si tratta si uno studio notevole. Come noto - e già sottolineato in altre sedi - Ibn Taymiyyah è alla base di tutto il pensiero radicale militante, e viene invocato dai gruppi di "jihad" per giustificare la presa del potere con la forza e il tirannicidio. Si veda V. Piacentini Fiorani, Il pensiero militare nel mondo musulmano, Fr. Angeli, Collana del Centro Militare di Studi Strategici, Milano 1996, specie, pp. 231 sgg.; Idem, Islam. Analisi dei rischi, op.cit.
(21) Vedasi ancora V. Piacentini Fiorani, Il pensiero militare nel mondo musulmano, op. cit., specif. pp. 252 e 280 sgg. Si veda anche E. Sivan, Radical Islam: Medieval Theology and Modern Politics, New Haven, Conn, Yale University Press, specif. pp. 94-107. Circa la prospettiva "moderata-riformista" salafita di Ibn Taymiyyah, si veda al-Halabi, Fundamentals of Commanding Good op. cit. È interessante un opuscolo pubblicato in Libano (Al-Ummah wa al-Sulta), che circolò clandestinamente, scritto da un salafita giordano del gruppo "di jihad", nel quale l'Autore - rifacendosi sempre a Ibn Taymiyyah - ripetendo quasi alla lettera lo scritto del Damasceno, invocava l'uso della forza come il solo modo per introdurre dei cambiamenti.
(22) Sebbene al-Bani si sia servito largamente di case editrici saudite per pubblicare i suoi studi, e sebbene abbia trascorso parecchi anni a Medina insegnando in quella Università, tuttavia egli mantenne sempre le distanze dal wahhabismo, e infine, essendo alcuni suoi discepoli accusati di aver preso parte alla aggressione contro la Grande Moschea nel 1979, fu espulso dall'Arabia Saudita.
(23) Molte delle cassette e dei "tapes" sono di contenuto squisitamente religioso e teologico, e, apparentemente, non contengono appelli a mobilitazione o militanza armata "anti-regime".

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